mercoledì 18 settembre 2013

VISIONI CALDE#03: PIETà di Kim Ki Duk

Un film di Kim Ki Duk è sempre un'esperienza particolare, soprattutto per uno spettatore occidentale: ancor più marcatamente di quanto avviene nella cinematografia nipponica, il cinema coreano è intriso della sua cultura d'origine in ogni singolo aspetto della messa in scena, tutto sullo schermo appare alieno e straniante per chi non appartiene, anche solo marginalmente, a quel mondo di atteggiamenti scostanti, reazioni improvvise e spiazzanti, gesti imprevedibili, battute imbarazzanti, momenti di puro lirismo alternati senza soluzione di continuità a scene al limite del ridicolo, da cui scaturiscono le pellicole coreane e di cui sono intrise a dismisura (spesso questo è motivo di allontanamento da tali opere da parte dello spettatore occidentale).
Questo film racconta una storia di vendetta e redenzione, e di come le due cose si intreccino, proprio come nel sesso, presenza costante della pellicola e di tutta la filmografia di Kim Ki Duk, due corpi opposti per genere e caratteristiche si fondono in un unico armonioso elemento. 
La pietà del titolo è quel sentimento che Gang-do (l'usuraio violento e senza scrupoli interpretato da  Lee Jung-jin) non riesce a provare, ma verso cui è destinato nel momento stesso in cui il ritorno della madre mette a dura prova la sua intolleranza nei riguardi della donna, rea di averlo abbandonato a suo tempo. 
La donna si stabilisce nella casa del figlio e il loro rapporto diviene subito morboso. 
Pressanti scadenze impediscono un sereno ritrovamento, corroso dalle conseguenze dei loschi traffici alla maniera del capitalismo.
Il riferimento del titolo alla Pietà di Michelangelo, così come la stessa locandina, sono a mio parere volutamente fuorvianti rispetto al vero messaggio del film: la pietà c'è anche nella sua assenza marcatamente sottolineata quando Gang-Do tortura i poveracci su cui pende lo strozzinaggio, ma la vendetta è più forte e ingloba tutto, e le lacrime versate per pietà si perdono ignorate e sole nel lago di sangue della violenza restituita al mittente con gli interessi, ovvero attraverso l'annullamento dello spirito e dei sentimenti di chi tanto rancore ha provocato nelle sue vittime.
La vittima in questo caso è una donna a cui è stato strappato il figlio, una donna che finge per vendetta e interpreta il ruolo di sè stessa con un uomo che non è suo figlio ma che quel figlio glielo ha portato via: l'intreccio è così raffinato e svelato  nei tempi giusti da strappare una lacrima, una lacrima che si perde in quel lago di sangue che porta il nome di vendetta.


2 commenti:

  1. Risposte
    1. Bè dai, in fondo la vicenda è un puro spunto per i significati, come tutto il cinema di Kim Ki Duk!

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