martedì 24 gennaio 2017

Dedicato a Mimosa



Entrò nella classe come un fantasma, magra come non mi era mai successo di ravvisare in nessun altro essere vivente, segnata in viso, con gli occhi acquosi e così teneri da spalancare il cuore, e le mani nodose a cingersi il ventre, come se stesse soffrendo.
Si chiamava Mimosa, questo lo ricordo, e fu la mia supplente di italiano per qualche tempo in prima media.
Ricordo distintamente che era primavera, perché dalla grande finestra a soffietto della classe penetrava la luce del sole di maggio, ma soprattutto perché la finestra era completamente spalancata e non sentivo freddo.
la finestra era spalancata perché Mimosa faceva lezione da fuori, essendo che eravamo al piano terra di una piccola scuola di quartiere, così poteva accendersi una Diana Blu dopo l'altra.
I miei compagni erano tutti intenti in risatine e sguardi attoniti, io invece ero affascinato, perché Mimosa non faceva solo tutte queste cose "strane", Mimosa ci parlava della letteratura italiana con amore per la materia, e anche questo fino ad allora non mi era mai capitato di ravvisarlo in un insegnante.
Tutto ciò che c'è da sapere sull'anticonformismo e l'autodeterminazione io ho cominciato ad impararlo con Mimosa, ma soprattutto con Mimosa ho imparato tutto ciò che c'è da sapere sulla critica.

Un giorno come compito a casa ci disse infatti di scrivere un commento su "Il Sabato del Villaggio" di Giacomo Leopardi.
Io, che già mi crogiolavo nella mia infinita abilità di scrittore, scrissi un panegirico agiografico dell'autore dimenticandomi completamente della poesia e conclusi in modo ridicolo con "...complimenti a Leopardi per questa magnifica poesia.".

Mimosa traccio un solco rosso e profondo, poi scrisse "Leopardi non ha bisogno dei tuoi complimenti".

Ovunque tu sia, grazie Mimosa.

mercoledì 18 gennaio 2017

Sherlock non doveva finire... o forse si.


Orfano.
Così mi sono sentito dopo il finale della quarta stagione di Sherlock, che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio finale, capace di chiudere trame e sotto-trame imbastite negli anni, e di regalarci una dose di emozioni sufficiente a sentirci davvero soddisfatti.
Ma questa soddisfazione dura solo un attimo, perché dopo che Cumberbatch e Freeman si bloccano in un fermo immagine segnando indelebilmente la storia della serialità televisiva (e internettiana) quello che si sente è un vuoto.
Si perché la cosa più bella di Sherlock (che sofferenza usare il passato), non erano le indagini complesse e magistralmente sceneggiate, la regia moderna e adrenalinica, le ambientazioni in bilico tra presente, passato e futuro... la cosa più bella di Sherlock era il rapporto tra l'investigatore più famoso del mondo e il suo fidato aiutante, il Dottor Watson.
Quello che si crea tra i due protagonisti è un rapporto che trascende completamente qualsiasi forma di sentimento, compreso l'amore (molto spesso sopravalutato), ed è il perno centrale di tutta l'epopea che compone l'affresco delle quattro stagioni di Sherlock.
Il modo in cui, progressivamente, questi due infinitamente bravi attori sono riusciti a trovare un alchimia  perfetta a livello recitativo è direttamente speculare al crescere del loro rapporto all'interno della storia narrata, e questa progressione continua coinvolge lo spettatore fino a toccare le sue corde emotive più profonde, perché quel che succede tra Holmes e Watson è davvero magico, e solo un cuore di ghiaccio non può esserne scalfitto.
Sherlock ha alzato in questi anni l'asticella di come si realizza una serie, introducendo la formula dei tre episodi di durata superiore ai sessanta minuti, e dando il via a  una forma di sintesi narrativa fino ad allora inedita (o quasi) per un prodotto televisivo (o internettiano appunto).

E allora perché il "forse" del titolo, se era tutto così perfetto perché non darne ancora a un pubblico che non aspetta altro?
la mia risposta è questa: perché è difficile.
Sherlock è difficile, non così riproducibile nella sua struttura come potrebbe sembrare (caso, indagine, soluzione, crescita dei personaggi), perché senza originalità Sherlock smette di essere quello che è e diventa il suo esatto opposto, ovvero un opera pretenziosa che nel tentativo di stupire finisce per annoiare.
Ecco, forse preferisco che rimangano lì, perennemente bloccati nella loro plasticità eterna, un caso mai narrato dopo l'altro.

venerdì 13 gennaio 2017

JAWS: Memories from Martha’s Vineyard - RECENSIONE


Per la prima volta su questo blog mi accingo a recensire un libro, e l'occasione è speciale: Jaws - Memories from Martha's Vineyard di Matt Taylor è infatti il più completo ed esaustivo compendio di fotografie, storie, profili di attori e comparse, eventi produttivi e storie sulla creazione del film più significativo per la mia storia personale, per l'appunto Lo Squalo di Steven Spielberg.
Matt Taylor è un giovane uomo che vive da generazioni a Martha's Vineyard, un isola del New England dove nel 1974 si svolsero le riprese del capolavoro di Steven Spielberg.
Per anni ha collezionato qualsiasi cosa fosse legata alla pellicola, fino a che non ha avuto un'idea a dir poco geniale: riunire tutte le fotografie e le storie legate alla realizzazione di Jaws realizzate dagli isolani in quei roboanti mesi di riprese, e la mole di materiale che ha raccolto lo sorprese a tal punto da voler realizzare quello che a tutti gli effetti è uno dei migliori libri di backstage che siano ma stati creati.

Una delle divertentissime foto presenti con protagonista il famigerato
squalo meccanico che tanti guai causò a Spielberg.
Il tomo, di cui potete leggere tutte le caratteristiche e godervi una preview QUI , si presenta come un tomo dalle dimensioni ragguardevoli (296 pagine) e dal formato rettangolare, al suo interno le fotografie sono stampate su una carta di ottima qualità e il comparto redazionale è incredibilmente ricco di centinaia di testimonianze, oltre che di rare interviste a personalità fondamentali nella produzione del film, primo fra tutti il production manager Joe Alves.

Quello che si scopre leggendo questo librone è che l'isola di Martha's Vineyard venne letteralmente sconvolta dall'arrivo di Hollywood, e che tutto, dall'economia fino alla tranquilla quotidianità dei pescatori segnati dal sole e dalla salsedine, non fu più lo stesso dopo quel 1974. Le storie di gente normale, colta nella sua quotidianità, diventano tasselli di un puzzle in cui il film passa addirittura in secondo piano, per mostrarci un dipinto umano strabiliante, e un modo di fare cinema che forse è in parte scomparso, soprattutto a Hollywood.
Imprescindibile l'acquisto (lo reperite con facilità su Amazon) per tutti gli appassionati di Jaws, ma anche per chi ama il cinema e vuole andare davvero scoprire come funziona l'ultima magia del secolo scorso.

martedì 10 gennaio 2017

Visioni Calde: ROGUE ONE - A STAR WARS STORY


Tutto sta in quella piccola scritta sotto il titolo: a Star Wars Story; può sembrare una banalità, dato che è universalmente nota la trama di questo primo spin-off cinematografico (che farà parte di una serie chiamata Star Wars Anthology) della saga fantasy creata da George Lucas, ovvero l'avventura di un gruppo di ribelli dell'alleanza incaricata di recuperare i piani della Morte Nera, l'incredibile arma di distruzione di massa che Luke distruggerà nel finale di Episodio IV.

Ma andando un po' più a fondo nel discorso, quello che ne viene fuori dalla pellicola diretta da Gareth Edwards e intitolata appunto Rogue One - a Star Wars Story, è proprio un lavoro certosino e attento a riprodurre fedelmente l'universo narrativo originale del primo film, restituendoci le stesse atmosfere attraverso una realizzazione tecnica impeccabile, nonostante il budget sia evidentemente inferiore a quello di episodio VII, che si dimostra particolarmente efficace nel reparto scenografie e costumi.
Come già era successo per l'ultimo episodio della saga principale, anche questo film risente molto, in positivo ma anche in negativo, della "Cura Disney", dunque ci ritroviamo un'eroina donna, Jin Erso interpretata da Felicity Jones, che rimane orfana della madre e viene separata dal padre, ex collaboratore scientifico dell'Impero, costretto a tornare a lavorare alla realizzazione proprio di quell'arma capace di distruggere interi pianeti. Proprio Galen Erso interpretato da un bravissimo Mads Mikkelsen, inserirà  il punto debole che permetterà ai ribelli di distruggere la Morte Nera in futuro, ma per farlo bisognerà proprio recuperare i piani progettuali.

La trama scorre dunque in modo piuttosto lineare senza approfondire troppo i personaggi ma basandosi appunto du questi tipici caratteri "disneyani", il che conferisce certamente una sicurezza strutturale collaudata negli anni, ma al contempo non dà molta profondità alla vicenda, che appare a tratti molto stereotipata.
Questo è a mio parere l'unico difetto del film, l'eccessiva linearità legata ad un modello che in definitiva è anche quello che fa da marchio di fabbrica alla saga di George Lucas, e che forse, in seguito alla spremitura che la Disney ne sta facendo, sta diventando troppo ripetitivo.
Per tutta la durata del film Rogue One fa egregiamente il suo lavoro, ovvero intrattenere lo spettatore, regalandoci emozioni forti e attimi di suspance, oltre che una serie di sfiziose easter eggs che gli amanti della saga coglieranno con grande piacere nostalgico.
Evito volutamente qualsiasi tipo di anticipazione, ma è nota da un pezzo la presenza di Darth Vader, e quello che posso dire e che le sue sono le scene migliori del film, oltre che per l'effetto esaltante di rivedere dopo tanto tempo Vader in azione anche per l'atmosfera e la potenza visiva.

In definitiva il mio parere sulla pellicola è positivo, nonostante alcuni difetti strutturali che stanno diventando una costante nell'universo Star Wars e che purtroppo sono anche fisiologici per una saga che si basa sempre su uno scheletro di racconto che intrattiene da quasi quarant'anni.


venerdì 6 gennaio 2017

TOP 5: FILM CHE HANNO CAMBIATO IL MODO DI FARE CINEMA


Ci sono migliaia di film la cui importanza è fondamentale nella storia della settima arte, ma sono molto pochi quelli che hanno radicalmente cambiato la forma d'arte in senso strutturale, riscrivendone le regole e diventando dei punti di riferimento imprescindibili per le opere future. L'intento di questo post è fare una breve analisi dei cinque film che secondo il mio parere hanno esercitato un impatto tale per cui il cinema non è stato più lo stesso dopo la loro uscita.
Senza troppi indugi dunque cominciamo:

1. QUARTO POTERE: Quarto potere (Citizen Kane) è un film del 1941 scritto, diretto, prodotto e interpretato da Orson Welles.
Orson Welles rivoluzionò il cinema al suo assoluto debutto cinematografico, raccontando l'ambiguità del sogno americano attraverso l'utilizzo di tecniche rivoluzionarie, sfruttando e potenziando tutte le tecniche cinematografiche del cinema delle origini, tramite la meccanica dei movimenti di macchina, la tecnica generale di ripresa e l'illuminotecnica studiata nei più minimi dettagli, Welles racconta la vita del cittadino Kane come in un romanzo di formazione per immagini in movimento, selezionando accuratamente ogni singolo fotogramma.
La cosa più rivoluzionaria di questa pellicola resta comunque l'utilizzo inedito della profondità di campo e del piano sequenza, ovvero l'uso per la prima volta consapevole e sistematico del fuoco e la realizzazione di intere sequenze senza alcuno stacco, ma affidandosi solo ai movimenti di macchina, trasformando così la macchina da presa nel narratore più importante.

2. PSYCO: Psyco (Psycho) è un film del 1960 diretto da Alfred Hitchcock.
Il grande Maestro del brivido inglese imbastisce con questo film un vero e proprio manuale di grammatica cinematografica, introducendo i concetti di simbolismo e psicoanalisi nella pellicola, rendendo così ogni singola inquadratura un compendio visivo di ciò che il film, attraverso i caratteri dei suoi personaggi, vuole dire al pubblico. Gli oggetti di scena diventano specchio dell'anima, non a caso proprio gli specchi sono presenti in quantità notevole, dando potenza espressiva al dualismo del protagonista e suggerendoci a livello subliminale il senso stesso della vicenda. Con Psyco Hitchcock raggiunge la sua piena maturità espressiva, lasciando alla storia del cinema alcune delle sequenze più emblematiche del cinema moderno, ma soprattutto diventando un modello da cui è impossibile prescindere per sviluppare una vicenda basata sui presupposti del thriller e del giallo.

3. 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO: 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey) è un film di fantascienza di Stanley Kubrick del 1968.
Con questo film Kubrick rivoluziona completamente il cinema di fantascienza, introducendo il concetto di verosimiglianza in questo genere, ovvero rendendo ogni dettaglio, anche il più fantasioso e futurista possibile, assolutamente plausibile da un punto di vista fisico e tecnico. la famosa camminata a testa in giù dell'assistente di missione che porta il pranzo agli astronauti per esempio, fu realizzata con un enorme macchinario che rendeva la scena in grado di girare davvero su se stessa, rendendo perfettamente l'idea dell'assenza di gravità. Il film intero è girato usando tecniche che all'epoca erano ancora sperimentali e assolutamente inedite, e la struttura narrativa copre un periodo di tempo sconfinato che va dalle origini della vita umana alle esplorazioni spaziali, in un cerchio che sembra essere infinito di creazione e generazione, fino ad arrivare a qualcosa che va persino oltre l'uomo stesso.

4. PULP FICTION: Pulp Fiction è un film del 1994 diretto da Quentin Tarantino.
Il film che ha valso a Tarantino un Oscar e una Palma d'Oro per la sceneggiatura ha rivoluzionato il cinema proprio per quanto riguarda la scrittura: il modo in cui Tarantino gestisce i tempi della narrazione, l'utilizzo spregiudicato dei flashback, ribaltano i modi e i tempi della vicenda, scardinando spesso e volentieri alcuni stilemi e certe inviolabili leggi che ancora nella metà degli anni novanta sembravano inviolabili e che al massimo venivano aggirate. Tarantino ci mostra quello che vuole e quando vuole, non da soddisfazione allo spettatore fino a che non crede sia sufficientemente pronto per averne, lo mette a parte di segreti che dovrebbero restare tali e gli nega alcuni pruriginosi dettagli (vedi la famosa valigetta).

5. INLAND EMPIRE: Inland Empire - L'impero della mente (Inland Empire) è un film del 2006 di David Lynch.
Cito questo film come picco artistico della poetica di David Lynch, che con questa pellicola ha avuto la possibilità di esprimersi davvero nel modo più libero possibile, orchestrando un vero e proprio flusso di coscienza alla Joyce utilizzando le immagini come rappresentazione diretta dei pensieri.
La storia diventa improvvisamente un dettaglio, non trascurabile e nemmeno marginale, ma non fondamentale. La regia di Lynch dà importanza assoluta alle sensazioni e la mancanza di qualunque soluzione di continuità, soprattutto nella seconda parte del film, fa scivolare lo spettatore nel vortice delle immagini sospese fra sogno e realtà. Lynch utilizza il digitale (ancora ai primi vaggiti nel 2006, ma comunque già ampiamente diffuso), in modo inedito, trascurando a volte la tecnica per poi diventare all'improvviso formalmente impeccabile, e così a tratti irregolari, come un pensiero, come una suggestione.

mercoledì 4 gennaio 2017

TWIN PEAKS è il momento del Re-watch!!!


In quasi trent'anni sono stati scritte miliardi di parole sulla serie televisiva ideata e realizzata da David Lynch e Mike Frost, ma questo 2017 ci regalerà un motivo molto speciale per poterne parlare ancora, ma soprattutto per poterci godere di nuovo le due stagioni e il film di cui è (per ora) composta la serie: nel corso di quest'anno infatti i due creatori della serie originale torneranno per una terza stagione di Twin Peaks, e con loro gran parte del cast originale.
Ora, questo basta per scatenare i milioni di fan in tutto il mondo, ma quello di cui vorrei parlare in questo post è il perché , a prescindere dalla nuova serie, qualunque essere umano dotato di intelletto dovrebbe riscoprire o addirittura (soprattutto nel caso delle generazioni più giovani) scoprire I Segreti di Twin Peaks.
Per prima cosa bisogna parlare della contestualizzazione dell'opera: nei primi anni novanta l'esempio di serie televisiva era Beverly Hills 90210, tanto per intenderci, vicende amorose e intrecci presi in prestito dalla soap opera ma valorizzati da un comparto di scrittura decisamente superiore a tali prodotti per definizione scadenti e dal facile consumo senza impegno particolare. In questo scenario si presenta questo Pilot di circa novanta minuti, durante i quali vengono posti più interrogativi che in un intera stagione del succitato Beverly Hills, per di più il tutto è immerso in un'ambientazione montana lontana dallo sfarzo e dalla bellezza delle classiche ambientazioni delle serie televisive di quegli anni, nella quale ogni singolo personaggio ricopre un ruolo fondamentale, per capire il quale non possiamo far altro che continuare a guardare il dipinto surrealista che Lynch e Frost ci lasciano ammirare un centimetro di tela alla volta.

Twin Peaks non ha inventato la serialità televisiva ma l'ha finalizzata nella forma che ancora oggi mantiene, dando il via a quella progressiva crescita che ha portato le serie tv a liberarsi dal vetusto nomignolo di "telefilm", per diventare una nuova forma di espressione artistica che ormai si batte a pari merito con le più importanti e prestigiose opere della settima arte.
Uno dei fantastici promo della nuova stagione.
In Twin Peaks ci sono già tutti gli elementi che faranno grande il cinema di Lynch, la ricerca morale attraverso l'introspezione, l'importanza dell'inconscio e del subconscio, la visionarietà che è espressione diretta del percorso che il regista e sceneggiatore fa fare a tutti i suoi personaggi (soprattutto a quelli positivi) che non sono mai gli stessi quando le vicende terminano.


Certamente il re-watch del titolo va fatto con la coscienza di chi sa contestualizzare, comprendendo i motivi di determinate ingenuità nella sceneggiatura oppure gli eccessi di alcune interpretazioni: erano gli anni novanta, una decade che iniziava sulle macerie degli anni ottanta, prolifici artisticamente ma spesso eccessivi e omologanti, c'era un ansia di cambiamento nella musica come nel cinema e nelle arti grafiche, e soprattutto c'era ancora l'ombra della strabordante epoca precedente. Twin peaks si colloca proprio in quel momento e questo è il suo più grande pregio e il suo più grande difetto.
In ogni caso, prima di gettarvi nella nuova stagione, recuperate le due di cui abbiamo appena parlato, ne varà la pena in ogni caso.

lunedì 2 gennaio 2017

THE YOUNG POPE, tutta una questione di arroganza.


Paolo Sorrentino si è garantito da solo, con una carriera in costante crescita artistica, il potere di fare ciò che vuole, a tratti ostentando persino una certa arroganza, mai come uomo ma sicuramente come regista.

E l'arroganza, a mio modesto parere, non è sempre una cosa brutta, anzi: direi che l'arroganza artistica può esserci nella stessa misura in cui possono esistere alcune rischiose e dispendiose riforme strutturali nel corso di una legislatura di governo, e quella misura è il prodotto interno lordo, per farla breve.
Se nel caso appena descritto, dunque, per poter dare effettiva e funzionante efficacia a una riforma servono dei soldi, nel caso di Sorrentino per realizzare opere cinematografiche (e ancor più televisive come in questo caso) così pretenziose e provocatorie servono i numeri del talento, del gusto estetico e della naturale capacità innata di raccontare una storia per immagini.




Questa premessa si riferisce alla natura di The Young Pope, la prima serie televisiva dretta da Sorrentino, prodotta dall'italiana Wildside di Fausto Brizzi, Lorenzo Mieli e Mario Gianani, in collaborazione con la compagnia francese Haut et Court TV e la spagnola Mediapro e scritta da Sorrentino, Stefano Rulli, Tony Grisoni e Umberto Contarello.

Dicevamo dunque dell'arroganza, questo minimo comune denominatore di cui è pregna questa serie di dieci episodi già rinnovata per una seconda stagione, pensata come un film di dieci ore, in cui si narra l'ascesa di Papa Pio XIII, al secolo Lenny Belardo, interpretato da uno splendido Jude Law,  un cardinale giovane, mite e dallo scarso peso politico. Abbandonato in orfanotrofio in tenera età, Lenny è continuamente tormentato da tale abbandono e ha sviluppato un rapporto molto turbolento con la fede e con Dio. Inaspettatamente, Lenny viene eletto pontefice dal collegio cardinalizio (in particolare nella figura del cardinale Voiello), che crede forse di aver trovato una pedina da poter manovrare a piacimento. Tuttavia Lenny, salito al soglio pontificio con il nome pontificale di Pio XIII, si dimostrerà un papa controverso e per nulla incline a farsi comandare, machiavellico e manipolatore.

I dieci episodi si svolgono realmente come un lungo film di dieci ore, ma Sorrentino non disdegna gli stilemi delle serie televisive, dalla sigla ai tempi narrativi, mescolando le carte in tavola continuamente, passando senza soluzione di continuità dalla dimensione del sogno a quella della verità fattuale, in cui il Papa si sdoppia, facendoci interrogare continuamente sulla sua reale natura.
Pio XIII è arrogante, proprio come la serie che parla di lui, è arrogante come la storia dello Stato Pontificio, è arrogante come la pubblicità di un prodotto che si venderebbe anche da solo.
Sorrentino incornicia tutti gli elementi del suo esperimento seriale con la sua consueta perfezione formale, vi inserisce tutte le sue ossessioni che ben conoscono sia i suoi estimatori che i detrattori, esagera, ingigantisce, strizza l'occhio... proprio come Jude Law lo fa verso il pubblico all'inizio di ogni episodio, facendoci capire che per tutta la serie non farà altro che prenderci per i fondelli, manipolarci, perché noi siamo semplici uomini, e lui il Vicario di Cristo.

The Young Pope merita di essere visto con un attenzione particolare, per il numero infinito di argomentazioni che smuove, per la bellezza dei luoghi (una Roma spogliata quasi completamente dalla presenza umana  che ci ricorda quella meravigliosa de La Grande Bellezza), per le interpretazioni strepitose non solo del protagonista ma anche di un magistrale Silvio Orlando nella parte del cardinale Voiello e di una splendida ed enigmatica Diane Keaton in stato di grazia nella parte di Suor Mary.
Ma soprattutto merita di essere visto perché è bello, bello in senso filosofico, bello nella sua essenza più pura, di una bellezza disarmante, e Dio sa di quanta bellezza abbiamo bisogno, in questa scardinata penisola italica.